Ogni anno, ormai, il 14 febbraio dedico un piccolo spazio a uno dei miei miti sportivi, quel Marco Pantani che è scomparso proprio in questa data del 2004. E quest'anno il ricordo del Pirata assume forse tutto un altro significato, visto il momento difficile che il ciclismo sta vivendo, tra gli scandali riguardanti icone passate dello sport come
Lance Armstrong e
Mario Cipollini. Perché, mentre gli altri hanno quasi distrutto il ciclismo, Pantani è finito per diventare vittima di questo sistema.
Si badi bene, non è mia intenzione affermare che Marco fosse pulito e che non imbrogliasse anche lui (anche se occorre specificare, visto che a volte sembra non essere proprio chiaro, che lui non è mai stato trovato positivo a un controllo antidoping). Era solo un ragazzo rassegnato all'andare delle cose, che non ha mai negato la realtà e non si è mai dimostrato arrogante riguardo alle questioni di doping con chi, dall'esterno, gli chiedeva in proposito. E che quasi sembrava cercare le vittorie non per gloria, soldi e fama come tutti gli altri, ma per dare sfogo alla propria sofferenza.
A questo punto, però, preferisco riportare un estratto scritto dal grande giornalista Gianni Mura per la prefazione al fondamentale libro
Gli ultimi giorni di Marco Pantani di Philippe Brunel.
"La diversità di Pantani era nella sua sensibilità, che esprimeva in una lingua non banale, quasi lirica (la "torrida tristezza" dell'ultimo messaggio), spesso spiazzante: «Vado forte in montagna per abbreviare la mia agonia».
Solo dopo la morte di Pantani mi sono reso conto che da professionista aveva vinto trentaquattro corse in tutto. Merckx ne vinceva di più in una stagione sola. Ma se Pantani è ancora ricordato e amato, è per come vinceva, non per quanto vinceva.
Vittorie quasi tutte in solitudine, quasi tutte senza un gesto di gioia sul traguardo, senza un sorriso per i fotografi e lo sponsor. Molti ciclisti sono stati abili nel mascherare la sofferenza (degli ultimi, Indurain e Armstrong) mentre Pantani la esibiva, la regalava, era parte fondamentale del rituale d'attacco.
Quasi mai dalla seconda o terza ruota, come consiglierebbe l'esperienza dei vecchi, ma dalla testa del gruppetto, che tutti vedessero. Mai di sorpresa, ma lanciando segnali: via il berrettino, via la bandana, una volta via perfino un orecchino prezioso, una ricerca di nudità agonistica.
Ma Merckx, per dire, era un atleta perfetto e quando pedalava sembrava di ascoltare la Cavalcata delle Valchirie. Pantani andava su di forza, sghembo, la testa pelata inquadrata dalle orecchie a sventola.
Sembrava un arrotino, un postino, un ragazzo che scappa su una bici non sua, e se musica sembrava di ascoltare era di fisarmonica, ma in un crescendo vertiginoso.
Pantastique, commentavano i francesi. Era un esperanto, Pantani, un linguaggio condiviso, qualcosa di remoto, di non ancora visto, un Godzilla proveniente da qualche abisso, da sotto la crosta terrestre."